Mentre in quasi tutti i paesi europei il salario minimo è stato introdotto da anni, in Italia si continua a non considerarlo necessario
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro … “ così recita parte l’art.1 della nostra Costituzione delineando subito uno dei principi fondanti del nostro paese. In realtà, da sempre, ma soprattutto negli ultimi anni, il tema “lavoro” è uno di quelli più dibattuti in assoluto, sotto ogni punto di vista, dai diritti alle retribuzioni.
Nell’ultimo anno il salario minimo è aumentato in quasi tutti i paesi dell’Unione europea, in Italia invece questa politica sociale è ormai diventata un miraggio per la cittadinanza, nonostante l’aumentare del costo della vita, causato da inflazione e speculazioni.
Cosa si intende per salario minimo
Il salario minimo è di fatto una retribuzione di base per tutti i lavoratori, fissata per legge, in un dato arco temporale. Non può essere in alcun modo ridotta da accordi collettivi o da contratti privati. È in sostanza, una “soglia limite” di salario sotto la quale il datore di lavoro non può scendere. Viene fissato sulla base di parametri quali il PIL, l’Indice dei Prezzi al Consumo, dell’andamento generale dei mercati ed è suscettibile di revisione periodica così da equilibrare il potere di acquisto dei salari. Il problema dal quale scaturisce questo dibattito riguarda “la povertà dei lavoratori”. Si stima che il 18,4% dei 23,3 milioni di lavoratori e lavoratrici in Italia guadagni meno di 9 euro lordi l’ora, inoltre il nostro paese risulta essere l’unico dove i salari sono rimasti fermi negli ultimi anni. Per questo numerosi paesi europei individuano la soluzione al problema degli stipendi, appunto, nel salario minimo. Dei 21 Paesi dell’Unione dove c’è il salario minimo, la Bulgaria è lo stato con il limite più basso: 332,34 euro. Spetta al Lussemburgo il tetto più alto, pari a 2.256,95 euro, seguito da Germania e Irlanda. Fuori dai confini europei, negli USA è fissato a 1.109,54 euro ed in Gran Bretagna a 1.583,31 euro. Solo Italia, Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia non ritengono questa misura una strada percorribile. D’altra parte la direttiva UE prescrive la soglia dell’80% per la copertura della contrattazione collettiva, sotto la quale lo Stato deve prevedere condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva.
L’ultima decisione del governo Meloni
Secondo la presidente del Consiglio Giorgia Meloni il salario minimo creerebbe “situazioni peggiori di quelle che abbiamo oggi”. Questo perché il Bel Paese si avvale di un sistema di contrattazione collettiva in grado di soddisfare l’85% dei lavoratori, comprensivo di svariate misure di tutela, ad esempio il TFR, le ferie, la previdenza complementare. La soluzione quindi non è la fissazione di un salario minimo legale, perché diventerebbe un parametro non aggiuntivo, ma sostitutivo della contrattazione, comportando un complessivo peggioramento delle condizioni dei lavoratori e facendo così un favore alle grandi concentrazioni economiche che potrebbero rivedere al ribasso i diritti dei lavoratori. “Credo sia molto più efficace estendere la contrattazione collettiva nei settori in cui non è prevista e tagliare le tasse sul lavoro, lavorare per combattere le discriminazioni e le irregolarità”, è la risposta letterale fornita dal presidente Meloni. L’alternativa sarebbe invece quella di implementare ulteriormente la contrattazione collettiva, ossia estenderla anche nei settori nei quali oggi non è prevista e ridurre le tasse sul lavoro, in particolare lavorare per avere “meno tasse, più soldi disponibili, più consumi, più produzione, più distribuzione di beni e servizi, più lavoro”, come precisato.